“Perché tacciono le voci della primavera in innumerevoli contrade d’America?”
Con questa malinconica domanda Rachel Carson si chiedeva quale fosse il motivo che fa sparire dall’etere i suoni di tutti gli animali e gli insetti che popolavano, o almeno avrebbero dovuto popolare, le campagne americane. Emblematico il titolo del suo libro, Primavera Silenziosa, divenuto il manifesto del movimento ambientalista che riporta la natura al centro del nostro mondo, scalzando la prepotente indole dell’uomo di consumare, deturpare e prosciugare con noncuranza la natura che lo ospita. In un periodo storico in cui si ignoravano le conseguenze delle azioni umane sull’ambiente e gli avvertimenti erano ancora timide voci inascoltate, dove la coesistenza tra uomo e natura era ancora solo una corrente filosofica più che uno strumento utile alla comunità, la Carson (che nel ’62 stava scrivendo gli effetti nefasti del DDT e dei pesticidi sull’ambiente) forse ancora non sapeva che il suo saggio avrebbe scosso le coscienze di molti, iniziando una rivoluzione silenziosa che continua ancora oggi più potente che mai. L’agricoltura biologica affonda le sue origini nella seconda metà del ‘900 ed è ancora oggi il simbolo più potente di questo movimento.
Cos'è l'agricoltura biologica, in breve
L’agricoltura biologica è regolamentata a livello europeo dal Regolamento UE 2018/848 che la definisce come “un sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di produzione alimentare basato sull’interazione tra le migliori prassi in materia di ambiente ed azione per il clima, un alto livello di biodiversità, la salvaguardia delle risorse naturali e l’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali e norme rigorose di produzione confacenti alle preferenze di un numero crescente di consumatori per prodotti ottenuti con sostanze e procedimenti naturali”. Senza scendere nei dettagli tecnici possiamo dire che l’agricoltura biologica si basa su alcuni principi quali la riduzione dell’uso di pesticidi escludendo quelli di sintesi chimica, l’esclusione dall’uso di OGM (Organismi Geneticamente Modificati), l’uso ristretto di pesticidi ed erbicidi e la rotazione delle culture. L’obiettivo è quello di salvaguardare l’ambiente migliorando la fertilità dei terreni, preservare gli habitat e ripristinarne la biodiversità, curare il benessere degli animali e andare incontro alle richieste e alle preferenze dei consumatori che pongono sempre più importanza a questi aspetti durante i loro acquisti.
Una crescita inarrestabile e una nuova consapevolezza del consumatore
Nel 2024, il settore del biologico in Italia ha mostrato una crescita robusta nel mercato interno registrando un incremento delle vendite del +5,7% rispetto all’anno precedente. Questa dinamica positiva è stata spinta in gran parte dai consumi domestici, che hanno quasi raggiunto i 5,2 miliardi di euro mentre il valore del “fuori casa” si attesta a 1,3 miliardi di euro. Parallelamente, anche l’export dei prodotti agroalimentari biologici italiani ha continuato la sua espansione. Nel 2024, le esportazioni hanno toccato i 3,9 miliardi di euro, segnando un notevole aumento del +7%. Questa crescita non è solo una questione di numeri, ma il riflesso di un profondo cambiamento nelle abitudini d’acquisto. Le motivazioni dei consumatori odierni vanno oltre il semplice “mangiare sano”.
Quali sono le motivazioni che spingono i consumatori verso i prodotti bio?
Innanzitutto, il 27% dei consumatori italiani ritiene i prodotti bio più sicuri per la salute rispetto all’opzione convenzionale, percependoli anche come più sostenibili. Difatti il 23% dei consumatori li ritiene più rispettosi dell’ambiente, il 10% del benessere animale e un ulteriore 10% fa riferimento alla sostenibilità sociale che intende sostenere i piccoli produttori. L’acquirente di oggi non cerca solo un prodotto privo di residui chimici, ma esprime una scelta consapevole che va oltre il singolo alimento, orientandosi verso un’agricoltura che rispetti la natura e la salute a lungo termine. Il biologico vuole essere un’opzione che risponde a queste domande, consolidando ulteriormente la sua presenza nella vita quotidiana dei consumatori.
I benefici ambientali: una promessa non mantenuta?
Mangiare biologico riduce davvero il nostro impatto negativo sull’ambiente o rischia di essere un semplice strumento di marketing che nasconde complessità e compromessi, opportunamente nascosti da un bollino verde su una confezione di plastica? A questa domanda è difficile rispondere.
Ci sono diversi studi a riguardo, molti dei quali sembrano vedere l’agricoltura biologica come una pratica più sostenibile ma non si ha una chiara risposta e al momento non si può dire con certezza che un metodo sia migliore dell’altro. Uno studio prende in considerazione l’impatto sulle emissioni di CO2, sul consumo di energia e sul bisogno di superfici per la coltivazione. Le emissioni di CO2 sono praticamente identiche ma, mentre il biologico consuma meno energia e usa meno pesticidi, l’agricoltura convenzionale ha bisogno di minori superfici coltivate per produrre una certa quantità di prodotto. Questo secondo aspetto, che può sembrare una cosa da niente, in realtà è cruciale al punto da far pendere la bilancia leggermente in favore dell’agricoltura convenzionale. Una metanalisi, comparativa di numerosi studi, mette bene in evidenza la difficoltà di valutare l’agricoltura biologica come più sostenibile rispetto a quella convenzionale. Vengono valutati cinque aspetti strettamente legati al degrado ambientale (emissione di gas serra, sfruttamento del suolo, potenziale di eutrofizzazione, potenziale di acidificazione, utilizzo di energia) e relazionati a sei categorie di alimenti (cereali, legumi, frutta, vegetali, latticini e uova e carne). L’agricoltura biologica aiuterebbe a diminuire significativamente soltanto la produzione di gas serra legate alla produzione di frutta e l’uso di energia per la produzione di cereali, legumi, latticini e uova. Per il resto avrebbe impatti uguali o addirittura superiori rispetto ai metodi di coltivazione convenzionale.
Pesticidi: il confronto tra biologico e convenzionale
Uno dei baluardi della sostenibilità dell’agricoltura biologica è sicuramente il ridotto utilizzo di pesticidi. Ridotto, non nullo (come invece molti pensano). Per legge i campi adibiti all’agricoltura biologica non possono essere trattati con gran parte dei pesticidi di sintesi ma questo non significa che i campi biologici non ricevano trattamenti, ma che c’è una lista precisa di sostanze che possono essere usate. Che piaccia o no, i pesticidi sono essenziali ai fini dell’agricoltura, vista la moltitudine di insetti, mammiferi, uccelli, ragni, batteri, virus e funghi che di frutta e verdura si nutrono. Le sostanze consentite sono spesso di origine vegetale, come la cera d’api per la protezione dalle operazioni di potatura, o gli oli vegetali, le piretrine estratte da crisantemo e l’azadiractina per i loro effetti insetticidi. Alcuni prodotti, invece, sono comuni sia nell’agricoltura bio che in quella convenzionale, come il rame, il fungicida per eccellenza.
Vero è che l’utilizzo del rame è spesso un abuso, nonostante ci sia il limite massimo 6 kg per ettaro l’anno, ma per quanto sia un prodotto considerato “naturale”, è comunque un metallo pesante che inquina il suolo e che ha una dimostrata tossicità sull’uomo. Effettivamente sui prodotti bio si riscontrano meno residui di fitofarmaci che su quelli convenzionali, ma le dosi trovate su quelli convenzionali sono comunque molto inferiori ai limiti massimi consentiti. Dato confermato dalle migliaia di analisi che fa ogni anno la comunità europea. Interessante notare che i campioni non conformi italiani, ovvero che superano il limite di residuo massimo, sono appena lo 0,7%, mentre i campioni dei prodotti importati risultano non conformi per il 5,6%. Attualmente, quindi, i rischi sulla salute che derivano dai pesticidi sono molto bassi e non destano alcuna preoccupazione, che si tratti di prodotti convenzionali o biologici.
La naturalezza dei prodotti biologici è reale?
Una delle tante tesi portate avanti dai sostenitori del biologico è che i prodotti che ne derivano sono più naturali proprio perché le tecniche di coltivazione sono migliori rispetto alle tecniche tradizionali. Un esempio è l’esclusione di pesticidi di sintesi chimica e la riduzione dell’elenco di pesticidi permessi o, ancora, la rotazione delle colture per mantenere alta nel tempo la fertilità del suolo e la resa produttiva. Gli animali devono essere allevati in condizioni che rispettino il loro benessere, con accesso a spazi aperti e la loro alimentazione deve essere basata su mangimi biologici. Anche l’uso di ormoni e antibiotici è strettamente limitato. L’agricoltura e l’allevamento sono naturali o innaturali a seconda degli occhi con cui si guarda. Tutto ciò che c’è nel reparto di ortofrutta, biologico e no, deriva da un’accurata selezione umana che dura da secoli o, per alcuni vegetali, da millenni; perché ettari di terreno coltivati con un’unica specie vegetale (selezionati per altezza, peso e numero delle cariossidi, resistenza alle malattie e all’allettamento) non esisterebbero senza l’intervento umano. Se si vuole considerare l’uomo come parte della natura e quindi tutto ciò che derivi dall’uomo come naturale per estensione, è una questione filosofica che lascio ai lettori.
Il dilemma della produttività e la sfida del futuro
Rimane evidente che la divergenza tra biologico e convenzionale non è così ampia e definita come l’immaginario comune prospetta. Nonostante alcuni benefici ambientali restano numerose le criticità della pratica biologica. La questione della produttività non è stata risolta. Il divario di resa, mediamente tra l’8% e il 25% in meno rispetto al convenzionale, continua a essere il principale ostacolo per una transizione totale al biologico su scala globale. La sua minore efficienza per ettaro potrebbe portare alla necessità di convertire più terreni in agricoltura, con il rischio di deforestazione e perdita di habitat naturali, contro la volontà di preservare la biodiversità e l’ambiente. Il dibattito è ancora in evoluzione. Continuano gli studi, i miglioramenti delle tecniche e delle tecnologie agricole, aumentano gli investimenti nel comparto agroalimentare per favorire una transizione ecologica e migliora sempre di più la consapevolezza che, a volte, non è tutto oro quello che luccica. Proprio per questo si stanno valutando alternative come l’agroecologia, l’agricoltura di precisione o quella rigenerativa che vogliono superare i limiti dell’agricoltura biologica e di quella convenzionale senza rinunciare ai loro punti di forza.
È chiaro, tuttavia, che questo dibattito non porta alcun vantaggio all’impatto ambientale.
Ma quindi, come consumatori, cosa si può fare per fare la differenza nei confronti dell’ambiente?
Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), circa un terzo di tutti gli alimenti prodotti nel mondo va perso o sprecato. In Europa ogni anno si sprecano più di 59 milioni di tonnellate di cibo, vale a dire 132 kg a persona. Si pensi che gli sprechi alimentari causano il 16% delle emissioni di gas a effetto serra provenienti dal sistema alimentare dell’UE. Tra i tanti consigli, più o meno utili, mi sento di condividere quello forse più importante: un consumo più consapevole e contenuto, acquisti mirati e meno spreco alimentare possono forse fare la differenza più di qualsiasi pratica agricola.