Isadora Duncan: danzare il vento

C’era una donna che camminava scalza sul palco come si cammina sulla riva del mare. Non entrava in scena, entrava in un respiro. Si muoveva come si muovono le foglie quando non vogliono posarsi a terra: lievi, ma determinate.

Isadora Duncan non danzava. Era vento, aria, stelle: era la danza.

Là dove ci si aggrappava al tutù e alle punte, lei si liberava. Togliendosi le scarpe, sciogliendosi i capelli, apriva il corpo al vento e lo lasciava parlare. Aveva scoperto che il gesto più autentico nasce da dentro, dal cuore, dallo stomaco, da quel centro che nessuno può insegnare. Diceva che il movimento non si studia: si ascolta.

Era nata a San Francisco, nel 1877, ultima di quattro figli. Il padre era un poeta che non trovò mai conferme, e la madre un’insegnante di musica. Isadora abitò una casa piena di note e di versi. E imparò a seguire il ritmo delle onde prima di quello del metronomo. Abbandonò presto la scuola: voleva ballare, ma non “come si deve”. Voleva ballare “come si sente”. Arrivò in Europa portando con sé solo un baule di stoffe leggere e visioni ardenti come sogni.

In Francia, un giorno, salì sul palco del Théâtre de l’Odéon con addosso una tunica trasparente e nient’altro che Schubert a farle da spalla. Fece pochi passi, sollevò le braccia, e il pubblico tacque come si tace davanti a qualcosa che non si sa spiegare. Le sue movenze, il suo corpo, raccontavano un’anima. A Berlino, danzò Wagner come se fosse un uragano dolcissimo. In Russia, si lasciò amare e ferire da un poeta complicato, Sergej Esenin, più giovane e più fragile di lei. In Grecia, cercò tra le colonne antiche la bellezza che aveva sempre inseguito: il gesto perfetto, quello che non imita, ma rivela.

E intanto fondava scuole, accoglieva allieve, camminava in giardini coi piedi nudi, inseguiva il sole e piangeva piano. Aveva avuto due figli da amori diversi e liberi, persi entrambi in un tragico incidente sul fiume Senna. Aveva avuto amori. Anche quelli, li aveva perduti. Ma il corpo, quello no: quello continuava a danzare, a vivere. Diceva: «Non ho inventato nulla. Ho solo restituito al corpo la sua voce.»

Smise di danzare nel respiro quando la sua sciarpa leggera si impigliò di colpo in un’auto in corsa. Non sopravvisse. Quel giorno, il vento si fermò un attimo. Solo un attimo.

Poi riprese. E da allora, ogni volta che una danzatrice si toglie le scarpe inseguendo la lievità anziché la perfezione; ogni volta che danza per dire la verità— lì, in quel momento, Isadora ritorna.

Per danzare il vento. Per essere sentita.

Leggera. Ribelle. Necessaria.