- Fabrizio Amadori
- Novembre 3, 2025
- 4:26 pm
Ogni uomo si pone le grandi domande. Per lo meno dovrebbe farlo una volta nella vita.
Talvolta domande solo filosofiche, altre volte domande scientifiche, anche se, come qualcuno forse ricorderà, la separazione dei saperi non è più qualcosa a cui si creda come un tempo. Si tratta di una questione molto interessante a cui pure io, nel mio piccolo, sto lavorando da tempo e che, negli anni, ho consegnato a dei brevi saggi per rivista, in attesa di un saggio lungo con cui spero di poter rendere in modo chiaro, organico ed efficace la mia posizione.
Detto questo, e tornando alle grandi domande, è chiaro che per un ‘filosofo’ come me la prima sia ‘perché l’essere e non il nulla?’. Si tratta di una domanda estremamente complessa a cui da ultimo Heidegger ha risposto da par suo. Infatti per lui il pensiero occidentale ha preso una strada sbagliata, si è dimenticato dell’essere concentrandosi sull’ente che ha dominato la scena e che ha fatto credere all’uomo di poterlo manipolare (come con l’essere non avrebbe mai potuto fare naturalmente), sino all’espressione massima di tale voluttà rappresentata dalla volontà di potenza nietzscheana. Per lui si è arrivati ad ‘entizzare’ l’essere, ma l’essere non si presta appunto a manovre del genere, e dovrebbe piuttosto essere avvicinato per quello che è, ossia il non ente, il niente.
Ebbene sì, per Heidegger, e arriviamo al punto iniziale, il nulla è l’essere.
Concezioni, le sue, al limite della provocazione, e che sembrano cadere, esse sì, nell’ambito di una voluttà di potenza che intende far passare per accettabili tesi del genere (affascinanti quanto campate in aria e prese di petto nella mia lunga opera in elaborazione). Anche considerato che proprio Heidegger, mentre contesta la conoscenza soggettivistica dell’uomo, ossia una conoscenza ‘da volontà di potenza’, una conoscenza in cui il soggetto può conoscere e manipolare l’oggetto, proprio lui fa tutta una serie di proclami sull’essere, sulla scienza, sul circolo ermeneutico, etc, che lasciano intendere una capacità di cogliere la realtà che non si capisce come possa sottrarsi alla critica che egli pone al pensiero, alias metafisica, dell’Occidente sino a lui.
In effetti, i critici spesso se la sono presa con Emanuele Severino perché si era detto contrario alla ‘follia dell’Occidente’; un Occidente che ha creduto nel nulla sino a lui, che invece non ci credeva, e che per dimostrarlo aveva scritto testi ponderosi e ricchi di ragionamento, da ‘La struttura originaria’ al più noto ‘Ritornare a Parmenide’. Se la sono presa con lui sin negli studi di note trasmissioni televisive, come fece Lucio Colletti tanti anni fa, quando prese in giro il grande filosofo di Brescia per tale pretesa di potersi ergere da solo contro l’intero pensiero occidentale. Inoltre Colletti, noto provocatore culturale, si scagliò in tale occasione contro Severino pure con gran gusto; in effetti, l’invidia è sempre stata una brutta bestia a cui neppure molti, troppi accademici, dall’alto della propria saggezza, sono mai riusciti evidentemente a sottrarsi.
In un’altra occasione, fu Vattimo negli studi dell”Infedele’ di Gad Lerner a prendersela con le lodi sperticate di Salvatore Natoli a Severino (suo maestro) e viceversa, ma occorre aggiungere che in tal caso il ben noto filosofo di Torino sapeva di avere delle buone ragioni per non considerare valido il pensiero del filosofo bresciano, partendo lui da una posizione intesa come sintesi e superamento delle teorie di ‘giganti’ come Nietzsche e Heidegger (quest’ultimo peraltro aveva letto e tenuto in gran conto almeno un testo del giovane Severino). Inoltre, Vattimo sapeva bene che nel mondo era molto più famoso lui di Severino grazie alla sua tesi-slogan, il famigerato e spesso maltrattato ‘pensiero debole’, da molti considerato l’estremizzazione nichilistica dell’ermeneutica gadameriana. Ma i libri di Vattimo in effetti si potevano (e si possono ancora) trovare da Buenos Aires ad Anchorage, quelli di Severino, purtroppo, no (non ancora, per chi scrive).
Heidegger, Severino e la realtà del nulla
I critici se la sono presa con Severino per questa sua posizione, per il fatto cioè di credere di poter bloccare almeno dal punto di vista teorico la deriva nichilista del pensiero occidentale, ma che dire allora di Heidegger? Anche lui ha sempre pensato di opporsi alla metafisica che lo aveva preceduto anche se, a onor del vero, faceva risalire la peggiore a soli pochi secoli prima, ossia al periodo di Cartesio e di Galileo. Detto questo, e per riprendere il punto, per chi scrive è importante farsi le domande fondamentali, e quella sul perché l’essere e non il nulla è appunto una di esse. Senonché bisognerebbe chiedersi se tali domande non siano ‘umane troppo umane’ e se insomma esse abbiano un senso per noi, ma non per la realtà a cui vengono rivolte. Come molti sanno, il pensiero è presumibilmente il prodotto migliore che l’uomo possieda per interagire con l’ambiente che lo circonda e in cui deve sopravvivere, ma non è detto che lo sia per cogliere la realtà profonda. Noi pensiamo il contrario perché siamo nipoti di Galileo, il quale riteneva che l’uomo potesse conoscere la realtà con la stessa qualità con la quale la conosceva Dio perché la realtà parlava e parla il linguaggio matematico, e la matematica era ed è alla portata anche dell’uomo.
Si tratta, evidentemente, di questioni apertissime, che è dubbio che siano destinate ad una soluzione definitiva da parte nostra. Ci si potrebbe anche attardare su domande più ‘scientifiche’ ma quasi – e sottolineo quasi – altrettanto interessanti. Da filosofo sui generis, essendo io, ripeto, un teorico della scrittura ‘costretto’ talvolta a occuparsi di filosofia, mi capita di orecchiare questioni scientifiche che mi fanno in effetti scattare sul chi va là. Ad esempio, so che alcuni scienziati mettono in guardia circa la domanda su cosa ci sia stato prima dell’universo per il semplice motivo che il prima e il dopo implicano la presenza del tempo, e il tempo non esiste fuori dall’universo. Proprio quando mi fai una domanda del genere ti contraddici, perché se mi chiedi cosa ci sia stato prima del tempo mi stai chiedendo cosa ci sia stato, presente il tempo, nel cui solo contesto puoi porre la domanda sul ‘prima’, prima del tempo. A questo punto, però, viene da chiedersi perché, se è senza senso, gli stessi scienziati si pongano il problema dell’inizio dell’universo, se cioè sanno in anticipo che non possono affrontare la questione davvero interessante, ossia che cosa sia successo un attimo ‘prima’ del concepimento, potendosi occupare solo del concepimento stesso.
Quale sarebbe il senso del Big bang?
Molti pensano, ripeto, che si occupi dell’attimo prima che l’universo sia sorto, ma in realtà sembrerebbe esattamente il contrario, esso si occupa di qualcosa che c’era già. Dare uno sguardo a qualcosa che c’è stato prima dell’universo significa porsi una questione sbagliata, e quindi almeno essa andrebbe riformulata. Io la riformulerei così: cosa c’era prima dell’universo, e quindi del tempo, che in realtà non era prima perché il tempo non c’era ancora? In qualsiasi modo fosse, non era prima. Si tratta di una situazione che, il lettore si sarà accorto, non si riesce neppure a immaginare. Come spesso fa, anche qui l’uomo parla di cose che non riesce a rappresentarsi (già il vescovo Berkeley l’aveva notato, e sappiamo come è andata a finire).
Certo, la scienza, come la filosofia, non ha certezze, ma alla fine si tratta di questioni arricchenti che dispiacerebbe non aver neppure sfiorato, come potrebbe succedere ad un povero letterato come me, prima di chiudere la propria esperienza su questa terra.